Il Museo di testimonianze della Civiltà contadina di Prossenicco è stato allestito al piano terra dell’edificio che fungeva da canonica ed è stato realizzato nell’ambito del progetto transfrontaliero ZBORZBIRK dal Comune di Taipana. Alcuni oggetti qui descritti o citati si trovano nell’esposizione visitabile presso il Municipio a Taipana.
Benvenuti a Prossenicco!
Sala 1. La fienagione
Entrati nel museo ci si affaccia sul corridoio dove, sulla parete sinistra, sono esposti diversi attrezzi utilizzati per la fienagione.
Si possono in particolare osservare la lama della falce e gli strumenti utilizzati per affilarla. Le coti era costituite da una pietra abrasiva fissata ad un manico di legno. Solitamente ogni falciatore aveva appeso alla cinta il contenitore, il portacote. Alcuni contenitori presentano sul fondo due punte che permettono all’oggetto di essere piantato a terra.
Per l’affilatura della lama dalla falce e più precisamente per ribattere le tacche e le asperità venivano usati l’incudine e il martello. L’incudine è simile a un grosso chiodo con la testa ingrossata in alto e smussata simmetricamente fino a formare uno spigolo arrotondato. L’altra estremità è a punta e veniva conficcata nel terreno.
Lo sfalcio dei prati intorno al paese avveniva due volte: a giugno e a settembre. Durante la giornata l’erba falciata veniva rigirata per asciugarla del tutto. Per questa operazione venivano usati i rastrelli. Alla sera si provvedeva al trasporto del fieno in paese. Se i prati erano lontani si realizzavano i covoni: la foto sulla parete ne mostra un esempio. Il trasporto si effettuava in diversi modi. Di solito sulle spalle, caricando il fieno nella gerla oppure si preparava un carico di fieno tenuto assieme dalle funi. Con l’aiuto di ganci in legno le funi venivano strette. Il fascio di erba veniva poi trasportato sulla testa. Solo in tempi più recenti, negli anni Cinquanta, furono costruite anche alcune teleferiche per il trasporto dei fasci d’erba o dei tronchi dalle zone più lontane e scoscese.
Altri oggetti per lavorare la terra sono appoggiati sulla parete in fondo al corridoio: la fotografia mostra gli uomini, le donne e i bambini impegnati nella costruzione della strada per ponte Vittorio ultimata tra il 1918 e il 1920: per la sua costruzione lavorarono anche bambine di 12 anni che, a piedi nudi, aiutavano a trasportare la ghiaia sulla massicciata stradale.
Sala 2. Le attività di sussitenza.
In paese, fino agli anni prima del terremoto del 1976, si allevavano in particolare bovini, maiali, capre, pecore, pollame e conigli. Tanti i campi coltivati, ma il cibo scarseggiava sempre e, i ragazzini, spesso si recavano a Longo/Logje a rubare rape e carote per mettere qualcosa nello stomaco.
Le mucche da latte erano per lo più lasciate in stalla, gli altri bovini, invece, nei mesi estivi venivano portati al pascolo nelle vicinanze dei fiumi o delle sorgenti d’acqua, dove erano state costruite anche delle casere.
La latteria paesana fu chiusa già negli anni Cinquanta. Le famiglie si organizzavano nelle “kompanje”, in gruppi di famiglie che collaboravano per la produzione del formaggio. A turno, una famiglia del consorzio realizzava il formaggio anche con il latte conferito dalle altre che poi andava restituito nelle stesse quantità.
Nella sala è esposto uno sgocciolatoio per il formaggio: si tratta di un disco di legno dotato di un beccuccio di legno per lo scarico del siero formatosi a seguito della compressione del formaggio.
Sono presenti anche alcune zangole utilizzate per preparare il burro. La zangola è un contenitore a doghe di forma cilindrica. Il coperchio munito di manico presenta un foro al centro in cui far passare l’asta di uno stantuffo che reca all’estremità alta l’impugnatura per agitare e a quella bassa, nel cilindro, un disco di legno di diametro di poco inferiore a quello interno del cilindro. Una volta versata la panna che affiorava dal latte, il cilindro veniva chiuso con il coperchio e lo stantuffo, dopodiché si cominciava a sbatterla agitando lo stantuffo. La conversione in burro richiedeva circa un paio d’ore di continua agitazione.
Al momento della macellazione dei suini, venivano raccolte anche le setole, i peli che ne coprivano il dorso, e vendute agli ambulanti. In cambio si acquistavano rocchetti di filo per cucire e aghi.
In sala sono esposti alcuni attrezzi per la filatura della lana. Dapprima la lana veniva pettinata, cardata con l’ausilio del cardo o cardasso, costituito da due tavolette con una serie di sottili chiodini fissati su una facciata. Una delle tavolette è fissata su una cassa di legno all’estremità di una panca dove stava seduta la persona.
La filatura veniva eseguita o con il fuso a rocca o con il metodo più sofisticato del filatoio. I filatoi si dividono in due gruppi tipologici: quelli col telaio orizzontale e quelli verticali. Altra variante è la girella che può avere i raggi o essere piena. Spesso si univano due fili in uno con l’arcolaio per rendere la lana più resistente e corposa.
Per l’avvolgimento del filo in matassa veniva usato l’aspo rotante: il tipo esposto è composto da un supporto che sostiene due assi verticali su cui è appoggiata un’asse trasversale. A quest’ultima sono collegati due raggi incrociati al centro. L’attrezzo veniva azionato a mano da una manovella in legno.
Nei pressi dei corsi d’acqua era coltivata anche la canapa per tessere le stoffe. I fascetti di canapa dopo essere rimasti a seccare al sole venivano strigliati per mezzo di robustissimi pettini di ferro, per staccarne i frutti. I fascetti venivano poi lasciati macerare nell’acqua contenuta in vasche costruite accanto ai mulini del paese, che erano ben sei a Prossenicco. Infine i fascetti erano frantumati, ripuliti dai pezzetti di legno, scotolati e quindi ripettinati.
La scotolatura avveniva grazie alla gramola, un attrezzo formato da due parti che si inseriscono una nell’altra e trattenute da un piolo trasversale. Gli steli di canapa posti trasversalmente sulle assi fisse venivano vigorosamente battuti dall’azione dell’asse detto battitoio o gramile, sollevato manualmente tramite un’impugnatura. Questo processo aveva lo scopo di separare le fibre tessili e renderle di aspetto morbido.
Gli uomini per proteggersi dal freddo invernale e dalle intemperie impararono a confezionare anche una sorta di giacca, chiamata “mzlana” nel locale dialetto sloveno, intrecciando la corteccia interna del tiglio.
Un’importante attività di sussistenza per gli abitanti di Prossenicco era rappresentata dal taglio di legname nei boschi che avveniva prevalentemente nel periodo invernale.
Per il trasporto del legname si sfruttavano le piene del Namlem e Lerada, affluenti del Natisone.
Per verificare se la portata d’acqua fosse sufficiente per la fluitazione si gettava in acqua un tronco di piccole dimensioni: se questi rimaneva a galla e veniva trascinato dalla corrente, si facevano scivolare in acqua anche i tronchi più grossi. Altrimenti si attendeva il novilunio successivo.
Il trasporto dei tronchi da luoghi lontani che non consentivano di effettuare la fluitazione avveniva a spalla: occorrevano anche dieci persone, possibilmente della stessa altezza. Il tronco veniva legato con le corde e queste passate sulle spalle dei portantini che si distribuivano da una parte e dall’altra del tronco stesso. Il legname era in parte venduto, in parte utilizzato per il riscaldamento e la cucina e in parte per la realizzazione di attrezzi o utensili domestici. Nella sala è esposta una panca munita di un sistema a morsa azionato con il piede. Una volta bloccato il pezzo di legno nella morsa, il carpentiere seduto sulla panca lo intagliava per ottenere, per esempio, uno zoccolo.
Un’altra attività praticata a Prossenicco e nella valle del Cornappo era la “kuta”, la carbonaia: si trattava di una catasta di legno realizzata in uno scavo e ricoperta di terra e foglie umide alla cui estremità era realizzata un’apertura che permetteva lo sfiato del gas di combustione. Le carbonaie dovevano venivano sorvegliate di giorno e di notte per controllare che non prendessero fuoco. Allo scopo si costruivano dei rifugi di fortuna dove si poteva riposare al riparo dalle intemperie. Di questo compito venivano gravati anche i ragazzini cosicché gli adulti potevano dedicarsi ad altre faccende. Il carbone, raccolto in sacchi, veniva portato a spalle sul Plan del Jof, dove i commercianti del fondovalle venivano per acquistarlo o barattarlo.
Altra attività che veniva praticata era quella di disseminare nei boschi trappole per i ghiri. La loro pelliccia era ricercata ed aveva, in denaro, il valore equivalente ad una bottiglia di vino. Inoltre la loro carne, mangiata insieme alla polenta, era da considerarsi una prelibatezza. Veniva cacciata anche la faina per il valore della sua pelliccia che equivaleva addirittura a quello di una mucca: la sua cattura era però più complicata.
Le donne, in particolare, si recavano sul monte Mia a raccogliere le fragole di bosco, partendo da Prossenicco verso le due del mattino. Le fragole venivano portate in paese in secchi agganciati all’arconcello, un arco in legno con due ganci all’estremità. Era utilizzato anche per il trasporto dell’acqua raccolta dalle sorgenti.
Nel pomeriggio le fragole venivano selezionate per poterle vendere, il giorno successivo, nei mercati di Udine, a 40 km di distanza percorsi a piedi.
A Prossenicco esistevano anche due fornaci dove si producevano, principalmente, tegole. Trasportate a spalla venivano vendute nei paesi limitrofi.
Sala 3. Il Pust.
L’altra sala del Museo è dedicata al Pust, il Carnevale una ricorrenza molto sentita in paese. Si organizzavano sfilate in maschera: le donne lavoravano notti intere per cucire gli abiti di carnevale con vecchie lenzuola e biancherie varie.
Due borgate, Uoslanj e Petočanj, erano in competizione per chi organizzava la sfilata con i costumi più caratteristici e divertenti. Memorabile fu quando, negli anni Sessanta, tre uomini della borgata Uoslanj si vestirono da … mucca. Nascosti sotto una pelliccia, quello davanti muoveva la testa, quello dietro reggeva una vescica di maiale che, con una bottiglia, veniva riempita di latte quando una donna si avvicinava fingendo di mungerla.
Durante il Carnevale, i giovani delle varie borgate organizzavano i balli nei fienili di qualche paesano: per ricopensare il proprietario e i suonatori, i ragazzi si offrivano di trasportare il letame con le slitte o nelle gerle per diversi giorni.
Il penultimo giorno di Carnevale un gruppo di giovani usava passare di casa in casa con la fisarmonica, ricevendo in cambio ciò che ogni famiglia poteva offrire. A fine giornata i giovani si raccoglievano insieme in qualche fienile e, festeggiando, consumavano quanto ricevuto.
Il martedì grasso veniva inscenato il processo al Pust. La sua figura era rappresentata da un giovanotto esuberante che girava per il paese insidiando le fanciulle e rubando tutto ciò che poteva tornargli utile. Era tuttavia stato arrestato e, nelle varie piazze del paese, si rappresentava il suo processo: c’era il giudice, i gendarmi e i testimoni. Tutto il pubblico partecipava attivamente. La messa in scena si concludeva con la condanna a morte del mariuolo Pust. A quel punto, i bimbi gridavano: “Pust je šu tju Milan, ne pride no leto en den dan!” (Il Carnevale se n’è andato a Milano, non torna per un anno e un giorno).
Sala 4.
Nell’ultima saletta è possibile visionare un filmato che raccoglie le testimonianze di alcuni paesani sulla vita di un tempo nonché ascoltare l’audio con gli antichi canti in sloveno interpretati dalle sorelle Evelina e Franca Melissa di Prossenicco e da Gianna Platischis di Platischis.
La Chiesa di Prossenicco.
Il paese di Prossenicco si trova elencato nella donazione di Vodolrico d’Atems ex marchese di Toscana, fatta il 2 febbraio 1170 nella basilica d’Aquileia al patriarca Vodolrico di Treffen, che l’accettò a nome della sua chiesa. La località nel documento viene chiamata Prosenich.
Toponomasticamente il nome Prossenicco, in sloveno Prosnid, compare scritto per la prima volta in un documento nel 1329. Deriva dallo sloveno proso “miglio” e, quindi, Prossenicco è “luogo coltivato a miglio”.
La comunità decise di costruire la propria chiesa nel XV secolo sotto il titolo di S. Leonardo, S. Margherita e S. Giovanni.
Alla fine del 1400 ci furono le incursioni dei Turchi, poi la guerra tra Venezia e l’Impero nel 1507-1517 e nel 1511 un devastante terremoto. Probabilmente la prima chiesa del paese fu distrutta in occasione di uno di questi avvenimenti e ricostruita intorno alla metà del XV secolo.
Nel XVIII secolo la comunità si dotò di un sacerdote e diede avvio ai necessari interventi di restauro della propria chiesa.
Nel 1836 la chiesa di Prossenicco, dopo alcuni lavori di ampliamento, venne eretta in sacramentale. Nel 1850 la vecchia chiesa fu in parte demolita e si diede avvio ai lavori per renderla più grande e sicura. I lavori terminarono nel 1853. Gravemente lesionata dal terremoto del 1976 l’edificio è stato successivamente ristrutturato e reintegrato al culto.
La parrocchia di Prossenicco è dedicata a San Leonardo, mentre la chiesa è dedicata ai Santi Ermacora e Fortunato.
Il campanile è stato ultimato nel 1898. Quando furono installate le campane ci fu una lite tra gli abitanti delle borgate Uoslanj e Patok perché sia gli uni che gli altri pretendevano che la campana più grande fosse posizionata verso il proprio borgo. Alla fine essa fu posizionata verso il borgo Uoslanj, dove la vediamo oggi. La campana più grande è dedicata a San Leonardo, a Sant’Ermacora la media e San Rocco la piccola.
All’interno della chiesa possiamo notare la particolare statua della Madonna del Rosario vestita di abiti sgargianti e pregevoli tessuti.
Il soffitto è ornato da un grande affresco raffigurante la Madonna Assunta con i serafini e i Cherubini. Dopo il terremoto, a causa delle infiltrazioni dal tetto, l’opera è andata quasi completamente persa. In seguito, il dipinto è stato restaurato, ma con insoddisfacente risultato.
La via crucis ha scritte in sloveno. Per questo motivo, quando nel 1933 Mussolini proibì l’uso della lingua slovena nelle chiese, la via crucis fu tolta e nascosta dai parrocchiani fino al termine della Seconda Guerra Mondiale.
Alcune nobili figure di sacerdoti
Il Comune di Taipana può vantare di aver dato i natali a numerosi sacerdoti che si sono distinti per la loro azione pastorale a difesa dei diritti culturali e linguistici delle comunità slovene locali. Lodevole è l’iniziativa degli abitanti di Platischis che, nel 1980, posero sulla facciata della chiesa parrocchiale una lapide con i nomi dei sacerdoti nati nel paese.
Portiamo qui ad esempio le figure di due sacerdoti, don Antonio Cuffolo di Platischis nominato nel 1920 cappellano a Lasiz, oggi nel Comune di Pulfero e don Giuseppe Cramaro di Prossenicco nominato cappellano di Antro, nel Comune di Pulfero nel 1933.
Il 16 agosto del 1933 questi e altri confratelli furono convocati a San Pietro al Natisone, dove il tenente dei carabinieri comunicò loro il divieto dell’uso dello sloveno nei canti, nelle preghiere e nell’insegnamento del catechismo. Il giorno dopo i sacerdoti si recarono presso l’Arcivescovo di Udine, mons. Giuseppe Nogara, e protestarono per il provvedimento preso dal governo fascista, ma senza ottenere alcuna risposta.
Quando i carabinieri cominciarono a sequestrare nelle canoniche e nelle case i libri di preghiera in sloveno, don Cuffolo nottetempo li nascose e sfuggi all’arresto rifugiandosi presso l’arcivescovo. Don Cramaro e altri sacerdoti delle Valli del Natisone scrissero al Papa Pio XI denunciando: “E’ successo il fatto che agenti intimidatori ed areligiosi si sono presentati nelle famiglie ove si recita il rosario in sloveno ogni sera ed hanno minacciato la denuncia, se non avessero voluto smettere con quelle preghiere. E’ successo il fatto che bambini invitati dai genitori a recitare le orazioni nella loro lingua si sono rifiutati ed hanno dichiarato di denunciare gli stessi propri genitori, se avessero voluto continuare a farli pregare in sloveno …”. La lettera non ebbe alcuna risposta, anzi alcuni sacerdoti furono diffidati di predicare in sloveno e furono minacciati di confino nell’isola dell’Asinara.
Lo scrittore sloveno Francè Bevk (1890-1970) nel 1980 diede alle stampe il romanzo dal titolo “Kaplan Martin Čedermac” (Il Cappellano Martin Čedermac) raccogliendo dati e testimonianze, in particolare, da don Antonio Cuffolo e compiendo visite sui luoghi. Il romanzo ebbe una vasta eco tra gli Sloveni e la figura del cappellano Čedermac divenne il personaggio simbolo della loro resistenza al regime fascista, del combattente per i diritti linguistici.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale la presenza del confine diventò una scusa per continuare l’attività di intimidazione nei confronti di sacerdoti e intellettuali che cominciavano a rivendicare i diritti culturali e linguistici della comunità slovena. Il clima di tensione nella Slavia era fomentato da organizzazioni segrete massicciamente presenti sul territorio. In esse erano confluiti ex militi fascisti, impiegati pubblici e amministratori locali. Si trattava di formazioni paramilitari note e riconosciute dalle autorità, sottoposte ad una gerarchia che decideva azioni, raduni, obiettivi e persone da controllare.
Don Arturo Blasutto, nato a Monteaperta nel 1913, fu un loro bersaglio. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1936, fu mandato a Oseacco di Resia. Durante la Seconda Guerra Mondiale offrì il suo aiuto umanitario e svolse la sua azione anche in mezzo ai partigiani e, per questo, fu posta sulla sua testa una taglia di 500 mila lire. Don Arturo, protetto dalla sua gente, decise di lasciare Oseacco e di rifugiarsi nelle Valli del Natisone. Finita la guerra e calmatesi le acque, fu nominato vicario a Liessa, in Comune di Grimacco. Qui riprese l’uso del dialetto sloveno nell’uso pastorale.
La violenta campagna antislovena fomentata in quegli anni dalle organizzazioni segrete, prese di mira in particolare don Arturo Blasutto anche a motivo delle voci che venivano da Resia. Ma egli tirò dritto in collaborazione con altri sacerdoti della Slavia. Nonostante l’intervento in sua difesa dell’Arcivescovo Nogara, la campagna di calunnie e accuse continuò e si accanì sul parroco di Liessa. I superiori affidarono ad un sacerdote locale l’incarico di svolgere sul suo comportamento un’indagine, che però non confermò alcuna delle accuse mossegli. Nonostante ciò, nel 1955 don Arturo fu rimosso inspiegabilmente dal suo incarico. In un memoriale inviato all’Arcivesco Zaffonato nel 1957 dai sacerdoti della zona, si riporta che il brigadiere dei carabinieri di Clodig avesse dichiarato: “Se don Blasutto di Liessa parlasse in italiano, non avrebbe nessuna accusa”.
Il 25 novembre 1955 don Arturo si ritirò a casa sua: celebrava la messa nella chiesa parrocchiale, ma senza il suono delle campane. Qualche tempo dopo gli fu negato di celebrare in chiesa. Non si abbatté e continuò nel silenzio e nella preghiera la sua via crucis. Morì il 17 settembre 1994.
La chiesa della Santissima Trinità di Monteaperta.
Tra gli edifici di culto presenti nel Comune di Taipana citiamo la chiesa della Santissima Trinità – Sveta Trojica del XIV secolo che è situata fuori dall’abitato di Monteaperta. In antico la chiesa era titolata ai Santi Daniele e Lorenzo.
L’edificio originario era sicuramente d’impianto romanico, riattato dopo i vari sismi specie dopo quelli del 1348 e 1511.
Fino al 1720 la chiesetta veniva censita sotto la titolarità di San Daniele. Dal 1737 fu registrata con l’attuale intitolazione.
L’edificio fu accresciuto nel coro nel 1798 e, quindi, con la sagrestia nel 1830, aggiunta dietro il presbiterio. La manomissione snaturò l’impianto romanico-rinascimentale originario per assumere un aspetto stilistico sette-ottocentesco, a cui fu aggiunto un portico o pronao nel 1930, dotato di una torre campanaria quadrata. Dopo queste aggiunte, il complesso assunse una caratteristica similare al santuario della Madonna delle pianelle di Nimis. Dell’antica struttura rimasero i muri dell’aula, come rivelano alcune tracce.
All’interno dell’aula sono emersi dalle pareti, a seguito del terremoto del 1976, alcuni lacerti di affresco. Si sono potuti rilevare quattro strati di pittura appartenenti a diversi periodi: uno strato molto antico di cui rimangono pochissime tracce al di sotto dell’affresco più recente raffigurante la Manifestazione epifanica; una fascia a motivi zoomorfi forse del XV secolo e uno strato più recente dove appaiono tracce della Vita di Cristo di epoca cinquecentesca che viene attribuito a Gianpaolo Thanner, pittore che operò soprattutto nell’area pedemontana e collinare che gravita fra il Tarcentino e il Manzanese.
Nella nicchia centrale dell’altare si trova il gruppo ligneo laccato in oro, raffigurante il Cristo, l’Eterno Padre che incoronano la Vergine Maria e sopra la Colomba dello Spirito Santo, risalente al XIX secolo. Sopra, la figura di San Daniele Profeta, residuo dell’altare ligneo ordinato nel 1595.
Gli abitanti delle valli del Cornappo e del Torre da sempre hanno nutrito una particolare devozione per questo santuario. Nella solennità della Santissima Trinità si rinnova il rito del “bacio delle croci”: ogni comunità viene rappresentata da una croce che, in segno di amicizia e collaborazione, viene chiamata ad avvicinarsi e salutare con due tocchi, uno per ogni lato della croce, quella di Monteaperta.
Le mostre fotografiche di Prossenicco.
In due ex fienili del paese sono state allestite due mostre fotografiche con immagini che ritraggono il paese e le usanze di un tempo dei suoi abitanti. L’uno si affaccia sulla piazza della Chiesa di Prossenicco, l’altro si trova in una viuzza pocco distante.
Secondo la definizione dell’interessante guida turistica “Le ultime valli” del 2010 Prossenicco meriterebbe di essere nominato “bene culturale nazionale”. Non perché abbia particolari monumenti, ma per il suo aspetto magnificamente caotico, risultato di una architettura che non si sottopone ad alcun regolamento!
Per un breve periodo, Prossenicco diventò un paese … lacustre. Nel giugno 1958, in seguito ad un violento nubifragio, si staccò un costone sotto il paese di Robedišče/Robediscis. La frana ostruì il corso del Lerada formando così un lago profondo fino a sei metri. Fu chiamato il lago di San Luigi, il santo del giorno in cui si formò. Il lago si conservò per sei anni.
A fine anni Quaranta, Prossenicco contava 800 abitanti. Il paese, suddiviso in borgate, eleggeva quattro rappresentanti che si riunivano ogni domenica per discutere delle problematiche e prendere decisioni riguardanti la vita della comunità.
Ad ogni borgo venivano poi assegnati dei compiti: per esempio, quando si verificava il decesso di una persona, il comitato decideva quale borgo dovesse mettere a disposizione le persone necessarie a provvedere al trasporto della salma, allo scavo della fossa e alla sepoltura.
Era poi un obbligo per tutti prestare aiuto ai più bisognosi. Succedeva, per esempio, che le famiglie che avevano più possibilità, cuocessero delle pagnotte che poi distribuivano alle famiglie del borgo. Queste a titolo di riconoscimento dovevano recitare il rosario in suffragio delle anime della famiglia benefattrice.
C’erano tantissimi bambini in paese e gli si raccontava che, se al rintocco delle campane dell’Ave Maria non fossero subito rincasati, sarebbe comparsa Ta Duja Baba o Te Duji Mož (la donna selvatica o l’uomo selvatico) per trascinarli per sempre nel bosco. Era tradizione che il primo dell’anno, i bambini andassero in giro per le case per la koleda: auguravano buon anno alla famiglia e in cambio ricevevano qualche frutto o noci e nocciole. Si riteneva che se il primo ad entrare in casa fosse stato un bimbo nel corso dell’anno sarebbe nato un vitello nella stalla della famiglia visitata, se fosse entrata una bimba, sarebbe invece nata una vitella.
A San Silvestro si usava realizzare il “kušper” un mazzetto di rami di alloro abbellito con delle nocciole che le ragazze realizzavano per il proprio fidanzato: i giovani lo mettevano poi in mostra nel taschino della giacca. Nell’occasione, si usava mettere all’occhiello anche il garofano. Per l’Epifania, nei campi, venivano realizzati degli enormi covoni con le canne e le foglie delle pannocchie che venivano fatti ardere la sera intorno al paese. La gente cantava e augurava in sloveno: «Bog dejte penogle, Bog dejte zdrauje še naprej!« (Il Signore ci dia pannochie e salute anche per il futuro!).
Durante il periodo pasquale le ragazze decoravano con inchiostro colorato ricavato da prodotti naturali sei o dodici uova che donavano al proprio ragazzo.
Nel giorno del Corpus Domini si usavano fare delle cappellette con biancheria ricamata a mano e con immagini sacre. Tutto il paese era addobbato con frasche e fiori. Il paese era abbellito con i fiori anche nella festività dell’Assunzione della Madonna, Rožinca, il 15 agosto: i fiori erano poi conservati e bruciati in caso di forte maltempo per allontanare i temporali e le burrasche. Altra festività molto sentita è la Madonna del Rosario, celebrata la prima domenica di ottobre, giorno in cui viene ancor oggi portata in processione la statua che la ritrae.
Anche i matrimoni erano motivo festa per tutto il paese. Se un ragazzo prendeva in sposa una ragazza di un altro paese, le compaesane dello sposo, dopo il matrimonio, bloccavano il passaggio alla coppia con una sbarra di legno sotto un portone. Per proseguire i festeggiamenti gli sposi dovevano pagare dazio che veniva consumato per brindare alla nuova famiglia. Viceversa, erano i ragazzi a chiedere il pedaggio alla nuova coppia, se lo sposo fosse stato di un altro paese.
La cucina nera.
Risalendo sulla strada principale si può visitare un’antica abitazione con la cucina nera. Maria Miscoria ha vissuto in questa casa sprovvista di acqua fino al 1990, alla soglia dei cent’anni.
All’interno, si può notare il focolare che è basso, rialzato di un palmo, addossato alla parete di fronte all’entrata e delimitato ai quattro lati da blocchi di pietra.
Sopra il focolare, pende dal soffitto un grosso catenaccio che termina con un gancio al quale veniva appesa la pentola. Non ci sono camini: il fumo usciva all’esterno dall’uscio della porta che era tagliata nella parte superiore.
Queste antiche case erano per lo più composte da un’unica stanza centrale, quella del focolare. Se non vi erano sufficienti posti letto per tutta la famiglia nel solaio, alcuni membri della famiglia andavano a dormire nelle stalle e nei fienili, unici posti caldi durante le lunghe notti invernali.